La recente decisione del Tribunale di Milano, pubblicata sul Post offre lo spunto per alcune riflessioni.
In sintesi, il Tribunale ha respinto il ricorso e ordinato a Google di interrompere l’associazione fra il nome e il cognome di un imprenditore e termini quali “truffa” e “truffatore” che apparivano automaticamente quando si digitava sul motore di ricerca il nome e il cognome dell’imprenditore e la lettera “t”. La tesi difensiva di Google era che l’associazione fosse automatica in quanto compiuta attraverso il software che completa la stringa di ricerca sulla base delle ricerche già effettuate dagli utenti. Google ha peraltro ottemperato alla sentenza.
Il punto più interessante della decisione, per il giurista, è che il Tribunale qualifica il motore di ricerca come una banca dati. Non si applica, dunque, il d. lgs. 70/2003 sulla responsabilità del provider, e i previsti esoneri di responsabilità.
Non viene, dunque, in rilievo la questione della “conoscenza dell’illiceità” da parte del provider.
Questa è invece al cuore di altre decisioni giurisprudenziali italiane. Da ultima, la dotta ordinanza del Tribunale di Roma del 23 marzo sul caso Yahoo.
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