Se un dipendente cancella dei file da un computer aziendale, o si impossessa di cd-rom di proprietà dell’azienda, deve rispondere dei reati di furto e danneggiamento, anche nel caso il recupero dei file sia ancora possibile.
Questo quanto recentemente stabilito dalla sentenza n°8555 della Corte di Cassazione, intervenuta sul caso di un dipendente che, a causa di forti tensioni sul luogo di lavoro, nel dare le dimissioni si era vendicato cancellando dal suo computer aziendale alcuni file e portando via con sé i relativi cd-rom di backup.
Confermando la sentenza della Corte d’Appello, la Cassazione ha respinto le motivazioni presentate dall’ex-dipendente che sosteneva che il reato di furto fosse da imputarsi solo in caso di perdita definitiva dei dati, mentre nel suo caso l’azienda era riuscita a tornare in possesso dei file grazie all’intervento di un tecnico specializzato nel recupero di dati cancellati.
Con riferimento alla alla legge 547 del 1993 che ratifica la Convenzione europea sulla pirateria informatica, la Corte ha ricordato che “il lemma ‘cancella’ che figura nel dettato normativo non può essere inteso nel suo precipuo significato semantico, rappresentativo di irrecuperabile elisione, ma nella specifica accezione tecnica recepita dal dettato normativo“.
Dal momento che in campo informatico la “cancellazione” è intesa come rimozione di dati in via provvisoria attraverso il cestino, e in via definitiva attraverso il suo svuotamento, secondo la Cassazione è corretto ritenere conforme allo spirito della normativa anche la cancellazione che non escluda una possibilità di recupero attraverso l’uso, peraltro dispendioso, di particolari procedure.
La Corte ha quindi confermato la sussistenza di un danno per l’azienda, che ha dovuto spendere risorse in termini di tempo e denaro per recuperare i file. Inotre, nal caso specifico, il danneggiamento va inteso anche in senso fisico perché buona parte dei file recuperati non potevano più essere aperti, e quindi erano definitivamente perduti.
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