La Cassazione ha definito inammissibile il ricorso contro una sentenza di condanna nei confronti di un imprenditore che aveva creato un sistema di marketing piramidale online, conosciuto anche come “catena di sant’Antonio”.
Nel 2010 il Tribunale di Tolmezzo aveva condannato ad una sanzione pecuniaria il titolare di due siti web per avere promosso e realizzato attività e strutture di vendita nelle quali l’incentivo economico primario dei componenti si fondava sul mero reclutamento di nuovi soggetti piuttosto che su un’attività di vendita vera e propria. Un’attività che nel nostro Paese è vietata dagli artt. 5 e 7 della legge 17 agosto 2005, n. 173.
Il sistema funzionava così: i siti proponevano all’utente di ottenere un premio attraverso l’iscrizione del proprio nome su una lista, previo pagamento di 34 euro. Quando la lista raggiungeva un certo numero di nominativi il primo iscritto dell’elenco riceveva il premio. Dopo un ulteriore numero di iscrizioni anche il secondo della lista veniva premiato, e via così fino al momento in cui la lista veniva chiusa. Tutti gli utenti erano così incentivati a promuovere il sito tra gli amici per poter raggiungere il premio desiderato.
Nel presentare il ricorso in Cassazione l’imputato aveva sostenuto l’erronea applicazione delle norme, sottolineando che la definizione di reclutamento contenuta nella sentenza fosse inapplicabile al caso, in quanto i partecipanti alla catena si iscrivevano di propria iniziativa e non all’insaputa del funzionamento del sistema.
A questa motivazione, la Suprema Corte ha replicato che la norma non richiede l’involontarietà dell’adesione quale presupposto per la sussistenza del reato. La Cassazione ha quindi ribadito che il caso rientra pienamente nella definizione del reato e ha pertanto respinto il ricorso, confermando la sentenza di secondo grado che condannava l’imprenditore a pagare un’ammenda di 1000 euro.
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