La settima sezione del Tribunale di Roma ha recentemente pubblicato le motivazioni a sostegno della sentenza dell’11 giugno 2012 che ha assolto un professionista romano cinquantenne dall’accusa di consumo di materiale pedopornografico online.
L’accusa era stata formalizzata in seguito ad un’indagine compiuta dalla polizia lussemburghese che ha segnalato all’Interpol la presenza di un cospicuo numero di indirizzi IP provenienti dall’Italia che si sarebbero connessi ad un sito pedopornografico con sede all’estero.
Risalendo dagli indirizzi IP ai nominativi dei titolari dei contratti di connessione, l’Interpol è giunta ad identificare i sospettati di consumo e detenzione di materiale pedopornografico, tra cui l’imputato romano.
Tuttavia, proprio sulla base dell’inaffidabilità dell’identificazione attraverso l’indirizzo IP, il Tribunale di Roma ha assolto il professionista per non aver commesso il fatto. Due le principali motivazioni. La prima riguarda la mancata corrispondenza tra titolarità di un indirizzo IP ed esclusività nell’utilizzo della connessione. Secondo la sentenza, l’indirizzo IP dell’imputato potrebbe anche essere stato utilizzato dai suoi familiari o da ignoti che si connettevano illecitamente alla connessione wi-fi. Nel dettaglio, stando a quanti hanno riportato la notizia, il Tribunale di Roma avrebbe constatato che: “non potendosi, quindi, escludere che terzi abbiano utilizzato quell’indirizzo, magari attraverso accessi abusivi o furto dei suoi dati ovvero che altri, tra i suoi familiari, abbiano potuto, quand’anche accidentalmente, nel sito pedopornografico in rassegna, si deve affermare l’impossibilità di fondare con tutte queste variabili, un verdetto di colpevolezza.”
La seconda motivazione riguarda invece un vizio genetico nel procedimento di acquisizione dei dati informatici relativi alle presunte connessioni con il sito pedopornografico per violazione degli articoli 254 e 254 bis cpp. A quanto si apprende, le prove dell’accesso ai siti incriminati, acquisite presso gli internet service provider attraverso i cd log di connessione, sono state ritenute inutilizzabili in quanto non acquisite e conservate in conformità con la Legge 18 marzo 2008, n. 48 recante la ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa di Budapest sulla criminalità informatica del 23 novembre 2001, che ha introdotto significative modifiche al Codice di procedura penale e al Codice della Privacy (Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196).
La sentenza del Tribunale di Roma è una delle prime in Italia a stabilire che gli indirizzi IP non identificano persone fisiche ma solo connessioni ad Internet, e pertanto non possono essere ritenuti sufficienti per l’imputazione della responsabilità.
il principio affermato dal Trib. Roma è in qualche modo analogo a quello su cui si fonda la tesi sostenuta da un gruppo di cittadini USA in un c.d. “processo Bellwether” (causa pilota): anche in questo caso l’assunto è che ad un indirizzo IP non corrisponda necessariamente un colpevole.
in allegato l’articolo
Grazie per la segnalazione.
Il principio della mancata corrispondenza tra indirizzo IP e persona fisica titolare della connessione ad Internet per l’attribuzione della responsabilità è stato ripreso più volte da sentenze di tribunali esteri, soprattutto sui casi di violazione di copyright.
Qualche tempo fa, abbiamo riportato la notizia di una sentenza su questa linea nel Regno Unito.
Per evitare l’applicazione di questo principio, negli Stati Uniti un’azienda titolare di diritti d’autore ha addirittura chiesto ad un giudice di stabilire un obbligo di sorveglianza del titolare di una connessione sull’utilizzo del proprio indirizzo IP. Il post è disponibile QUI.