Un recente caso in Inghilterra riapre il dibattito sulle limitazioni all’accesso a Internet per i carcerati.
In seguito ad un’inchiesta, del quotidiano Yorkshire Evening, cinque detenuti del penitenziario di massima sicurezza di Wakfield, nel nord dell’Inghilterra, sono stati accusati di possedere un profilo personale su Facebook.
Il quotidiano sulla base del Freedom Information Act 2000, l’atto che regolamenta il trattamento dell’informazione delle pubbliche autorità, ha spinto il NOMS (National Offender Management Services) a verificare le identità dei detenuti e ottenere la chiusura dei profili ritenuti illegali.
L’episodio ha sollevato un dibattito sulle restrizioni che oggi sono da ritenersi sufficienti per la sicurezza della comunità. La responsabilità per le attività online collegate ad un profilo non è di facile attribuzione, considerato che chiunque può agire sotto l’identità virtuale di un account di un social network.
Se è vero che l’accesso ad internet può essere una minaccia per la comunità e per le vittime dei condannati della “casa dei mostri” (così è chiamato il carcere di Wakfield), è altrettanto vero che il profilo virtuale non implica una relazione diretta con la persona fisica: risulta infatti dall’inchiesta che alcuni detenuti gestissero il proprio account di Facebook attraverso l’attività di parenti e amici. Il portavoce agli addetti alla sicurezza ha ribadito che “i detenuti non hanno accesso a internet”, ma rimane ancora da sciogliere il nodo delle limitazioni d’accesso alla rete per le persone in stato di reclusione.
Intanto, la sicurezza della prigione di Wakfield viene garantita dal portavoce che assicura il divieto d’accesso anche per i prigionieri in attesa di una sentenza.
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