Il colosso tedesco Beiersdorf, proprietario del brand “Nivea”, ha vinto la causa contro la piccola azienda piemontese Neve Cosmetics, accusata di violazione di diritti di esclusiva sul nome “Neve”, considerato troppo simile a “Nivea”. Ma la reazione dei consumatori fa riflettere sull’opportunità della querela.
La notizia risale a fine luglio: il Tribunale di Milano ha dichiarato nulli i marchi “Neve” e “Neve Make up” a favore del celebre marchio tedesco e ha stabilito che la parola “Neve” non può essere utilizzata come marchio da nuove compagnie del settore cosmetico in quanto confondibile con “Nivea”.
La Neve Cosmetics è una piccola società (con 10 addetti) dedita alla produzione di cosmetici naturali, esclusivamente commercializzati tramite internet. Come ricordato anche in sede giudiziale, i suoi prodotti, proposti come “cosmetici vegetariani e vegani”, sono privi di “siliconi che occludono i pori, niente petrolati che non fanno respirare la pelle, niente conservanti pesanti, niente derivati dalla macellazione di mammiferi”. In sostanza, si tratta di una linea cosmetica che si pone non solo come concorrente ma come antagonista dei prodotti di bellezza delle grandi distribuzioni.
Secondo il Tribunale, nonostante la differenza nella comunicazione dei prodotti, il nome “Neve” è troppo simile a “Nivea” in quanto deriva etimologicamente dal latino niveus/nivea/nivum ossia “bianco come la neve”. Pertanto il Tribunale ha dichiarato la nullità del marchio Neve e ne ha vietato l’utilizzazione.
La vittoria della multinazionale tedesca ha provocato lo sdegno dei consumatori dei prodotti Neve, che hanno intrapreso una campagna sul web a sostegno della PMI piemontese creando banner di protesta e utilizzando l’hastag #StoConNeve e lo slogan “Se Compro Neve è perché so che non è Nivea!”.
Anche se è lecito ipotizzare che la campagna sia nata dall’intervento di professionisti della comunicazione, è di fatto divenuta virale in pochi giorni. Le centinaia di messaggi di critica apparsi sulle varie pagine social di Nivea hanno attirato l’attenzione dei media tradizionali che riportando la notizia, ne hanno ampliato la portata. Con un interessante effetto valanga, alla protesta dei consumatori di cosmetici Neve si sono uniti anche altri utenti del web colpiti dalla sproporzione economica tra accusatore e accusato, letta come un sopruso del forte sul debole.
I messaggi degli utenti sembrerebbero in parte rivolti anche al Tribunale di Milano perché sostengono l’impossibilità di confondere i due marchi, nonostante l’etimologia comune dei due nomi, e sottolineano la totale differenza tra le due case cosmetiche, le cui filosofie, formulazioni e proposte commerciali sono agli antipodi. Una differenza che, ovviamente, sarebbe tutta a vantaggio di Neve, e della sua offerta naturale, rispettosa e benefica, in opposizione ad una supposta dannosità di Nivea e dei suoi prodotti artificiali e chimici.
Per tutta risposta, i professionisti della comunicazione del marchio Nivea hanno scelto la via del silenzio e portano avanti da giorni una paziente opera di rimozione dei messaggi. Com’era prevedibile, la censura, vissuta come un oltraggio, ha provocato un ulteriore motivo di irritazione per i dimostranti, che sono arrivati persino ad aprire sul sito Change.org una petizione per il ritiro della causa da parte di Nivea.
Esulando da un’analisi giuridica della vicenda, questi risvolti in ambito comunicativo offrono un interessante spunto di riflessione. Nel caso di contenziosi che potrebbero esporre le parti ad una particolare attenzione mediatica si delinea la necessità di prevedere un piano d’azione della comunicazione post-sentenza, che tenga conto di eventuali risvolti negativi anche in caso di vittoria. Giocare d’anticipo potrebbe essere determinante per scongiurare danni alla reputazione aziendale. Tuttavia, un’analisi preventiva accurata dei possibili scenari comunicativi sul web potrebbe portare a riconsiderare l’opportunità della querela stessa.
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