Incitamento all’odio, fake news, cyberbullismo e campagne di denigrazione. Umiliazioni online che hanno portato le vittime a tracolli psicologici e gesti estremi. Negli ultimi tempi sembra che Internet abbia svelato il suo lato più oscuro e pericoloso, che colpisce nella semplice forma di commenti pubblicati sui forum e social network.
“La penna è più potente che la spada”, l’adagio attribuito a Edward Bulwer-Lytton dovrebbe oggi essere ribaltato in “la tastiera è più potente della spada”, o “del mitra” se si vuole modernizzare fino in fondo. Righe di testo cariche di rabbia, nella migliore delle ipotesi scritte di fretta da cittadini irresponsabili, con effetto valanga si tramutano in centinaia di messaggi ingiuriosi che non solo provocano ai destinatari situazioni di forte stress psicologico ma sembrano rafforzare negli utenti dei social network la credenza che quando si tratta di commentare, qualunque discorso sia lecito e qualsiasi offesa impunita.
Com’è oramai noto, nel tentativo di fermare i flusso di offese che imperversa sulle sue pagine social Laura Boldrini, da anni bersaglio di commenti ingiuriosi sul web, ha recentemente dichiarato la volontà di perseguire penalmente chi insulta online. La Presidente della Camera si era già espressa più volte sulle campagne di odio, aprendo un dibattito sull’eventuale necessità di ripensare alle norme su alcuni aspetti della rete, come l’anonimato.
Eppure il diritto all’anonimato, tutelato dall’Art.10 della Dichiarazione dei diritti di Internet, sembra non essere connesso dell’allarme sulla diffusione dell’incitamento all’odio e alla violenza. Oggi la maggioranza dei commenti offensivi e denigratori che si leggono su social network non sono affatto anonimi, bensì accompagnati da nome e cognome e foto. Ma non solo. Lungi dall’essere protetti da uno pseudonimo, gli aggressori verbali sono esposti a un’identificazione molto maggiore di quella limitata al dato anagrafico. Attraverso i profili Facebook dei commentatori è possibile venire a conoscenza di una grande quantità di informazioni personali. Si tratta quindi di un reato per i quali i responsabili non sentono in alcun modo il bisogno di proteggersi dalle pene previste dalla legge.
È possibile che questi cittadini non siano consapevoli che l’utilizzo dei social network e delle nuove tecnologie non li rende immuni alle disposizioni di legge, che sono chiare: hate speech, fake news, vignette ingiuriose, fotomontaggi offensivi, sono declinazioni di un un’unica tipologia di reato che rientra nella definizione giuridica di diffamazione.
La diffamazione, anche attraverso Facebook, è un reato adeguatamente normato dalla legislazione italiana.
Secondo le disposizioni dell’art. 595 c.p. chiunque offende l’altrui reputazione comunicando con più persone è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, o della multa fino a euro 2.065.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità (tra cui Facebook, come confermato dalla sentenza n. 4873 depositata il 1° febbraio 2017, la Quinta Sezione della Cassazione), la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516.
E le pene aumentano se l’offesa è recata a un corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una Autorità costituita in collegio.
Chiarito questo punto va però ricordato che in molti hanno commentato che se le vittime degli campagne d’odio online querelassero tutte i responsabili di diffamazione le procure verrebbero sommerse di lavoro, e le risorse per gestire tutti i casi potrebbero venire a mancare. Si tratta di un’osservazione di ordine pratico che tuttavia non deve incidere sulla scelta delle vittime di querelare chi diffama. Anche poche punizioni esemplari potrebbero sortire un effetto deterrente utile.
La questione del sovraccaricamento di lavoro delle procure dovrebbe però preoccupare tutti i cittadini perché le campagne d’odio hanno un costo collettivo in termini di spesa pubblica che ricade su tutti e quindi anche sugli stessi haters, che vengano querelati o meno. Sarebbe quindi auspicabile un’alzata di scudi collettiva non solo per la spregevolezza del reato di incitamento all’odio ma anche per via dei costi della giustizia che incidono direttamente sul bilancio dello stato. Basti pensare a cosa accadrebbe se tutte le vittime di diffamazione online querelassero i responsabili, com’è loro diritto.
Purtroppo, stando a quanto viene riportato online, i commenti violenti nei riguardi della Presidente della Camera non sono cessati dopo la minaccia di querele a tappeto, com’è possibile verificare seguendo l’hashtag #adessobasta. Dunque è possibile che ci troveremo ad assistere ad una serie di azioni giudiziarie i cui esiti potrebbero influire, se non altro, auspicabilmente, sulla diffusa percezione di impunità.
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