La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 20 del 21 febbraio 2019, ha dichiarato illegittima la disposizione che estendeva a tutti i dirigenti pubblici gli stessi obblighi di pubblicazione previsti per i titolari di incarichi politici.
È stato il Tribunale amministrativo regionale del Lazio a sottoporre la questione di legittimità costituzionale alla Consulta. In particolare, con ordinanza del 19 settembre 2017, il TAR del Lazio ha sollevato la questione di conformità dell’art. 14, commi 1-bis e 1-ter, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (“Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”) agli artt. 2, 3, 13 e 117 della Costituzione.
La disposizione censurata prevedeva, in particolare, la pubblicazione dei compensi percepiti da tutti i dirigenti pubblici per lo svolgimento dell’incarico e i dati patrimoniali ricavabili dalla dichiarazione dei redditi e da specifiche attestazioni di diritti reali sui beni immobili e mobili iscritti in pubblici registri, sulle azioni di società e sulle quote di partecipazione a società. Questi dati dovevano essere diffusi attraverso i siti istituzionali e potevano essere trattati secondo modalità che ne consentivano l’indicizzazione, la rintracciabilità tramite i motori di ricerca e anche il loro riutilizzo.
La Corte, con sentenza depositata ieri, ha ritenuto irragionevole il bilanciamento operato dal d.lgs. n. 33/2013 tra due diritti: quello alla protezione dei dati personali, inteso come diritto del soggetto cui i dati si riferiscono, di esercitare un controllo, anche attivo, su detti dati, e quello dei cittadini al libero accesso ai dati e alle informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni. Un raffronto, dunque, tra privacy e trasparenza amministrativa.
Innanzitutto, i giudici costituzionali hanno ritenuto che l’onere di pubblicazione in questione fosse sproporzionato rispetto alla finalità principale perseguita, quella di contrasto alla corruzione nell’ambito della pubblica amministrazione. Infatti, “Nel caso in esame, alla compressione – indiscutibile – del diritto alla protezione dei dati personali non corrisponde, prima facie, un paragonabile incremento né della tutela del contrapposto diritto dei cittadini ad essere correttamente informati, né dell’interesse pubblico alla prevenzione e alla repressione dei fenomeni di corruzione”. Al contrario, secondo la Corte Costituzionale, la pubblicazione di una notevolissima quantità di dati personali rischia di frustrare le stesse esigenze di informazione veritiera e, quindi, di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, poste a fondamento della normativa sulla trasparenza.
In secondo luogo, la Corte ha rilevato che il rispetto del principio di proporzionalità implicherebbe altresì la scelta della misura meno restrittiva dei diritti fondamentali in potenziale conflitto. A tal riguardo, la stessa Corte ha suggerito alcune misure alternative all’obbligo generalizzato di pubblicazione, come la definizione di soglie reddituali il cui superamento sia condizione necessaria per far scattare l’onere ovvero la diffusione di dati coperti dall’anonimato.
In terzo luogo, i giudici costituzionali hanno ritenuto che la mancanza di qualsivoglia differenziazione dell’obbligo rispetto ai dirigenti risultasse in contrasto con il principio di eguaglianza ex art. 3 della Costituzione. Il legislatore – secondo la Consulta – avrebbe dovuto operare distinzioni in rapporto al grado di esposizione dell’incarico pubblico al rischio di corruzione, prevedendo conseguentemente livelli differenziati di completezza dei dati da pubblicare.
Infine, la Corte Costituzionale ha salvato la norma nella parte in cui prevedeva l’obbligo di pubblicazione per i dirigenti apicali delle amministrazioni statali. Secondo la Corte, infatti, l’attribuzione a questi dirigenti di compiti di elevatissimo rilievo rende non irragionevole che, solo per loro, siano mantenuti gli obblighi di trasparenza in questione.
L’ultima parola spetta ora al legislatore. Quest’ultimo, infatti, non potrà esimersi dal ridisegnare il complessivo quadro dei destinatari degli obblighi di trasparenza e delle relative modalità di attuazione, garantendo il rispetto della Costituzione e della normativa posta a tutela dei dati personali.