Le comunicazioni tra un avvocato dipendente da un’impresa e il suo datore di lavoro non possono godere del diritto di riservatezza goduto da chi svolge indipendentemente la professione forense. Questo ciò che è emerso da una recente sentenza della Corte di giustizia europea.
La decisione della Corte chiude così il ricorso da parte di una multinazionale del ramo chimico contro una sentenza del Tribunale di primo grado che aveva negato il riconoscimento della tutela della riservatezza alle comunicazioni tra un dirigente e un giurista interno all’azienda.
Le comunicazioni a cui si fa riferimento erano state raccolte nel 2003, nel corso di un’indagine della Commissione europea volta a indagare su eventuali pratiche anticoncorrenziali da parte della multinazionale. Tra i vari documenti prelevati come prove i funzionari della Commissione avevano incluso due messaggi e-mail scambiati tra il direttore generale della società e un avvocato dipendente dalla stessa, ma iscritto all’ordine forense olandese.
Appellandosi al principio di tutela della riservatezza alle comunicazioni tra clienti e avvocati, la multinazionale aveva fatto ricorso contro la Commissione europea domandando al Tribunale di primo grado la restituzione della corrispondenza e-mail e la sua esclusione dagli atti. La domanda è stata rigettata e nel 2008 la società chimica ha presentato ricorso alla Corte di giustizia.
Il 14 settembre la Corte ha tuttavia confermato la sentenza del Tribunale, specificando che la tutela della riservatezza nelle comunicazioni tra avvocato e cliente è strettamente legata alla qualifica di avvocato indipendente, in quanto deriva dalla concezione della funzione dell’avvocato come collaborazione all’amministrazione della giustizia e attività intesa a fornire, in piena indipendenza e nell’interesse superiore della giustizia, l’assistenza legale di cui il cliente ha bisogno.
Un legale stipendiato da una società, nonostante l’iscrizione all’Ordine forense, non gode dello stesso grado di indipendenza dal suo datore di lavoro di cui gode, nei confronti dei suoi clienti, un avvocato che lavora in uno studio legale esterno. Pertanto, per un avvocato interno è più difficile che per un avvocato esterno risolvere eventuali conflitti tra i suoi doveri professionali e gli obiettivi del suo cliente.
L’avvocato interno ad un’azienda non può quindi essere equiparato ad un esterno a causa della situazione di lavoratore subordinato in cui si trova, situazione che, per sua stessa natura, non consente all’avvocato interno di discostarsi dalle strategie commerciali perseguite dal suo datore di lavoro e che dunque influisce sulla sua capacità di agire con indipendenza professionale. A causa di questa discrepanza la Corte ha altresì sostenuto l’insussistenza di qualunque violazione del principio della parità di trattamento.
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