La Electronic Frontier Foundation denuncia il caso di alcuni cittadini nella provincia dello Xinjiang, obbligati a cancellare i servizi di messaggistica istantanea per mantenere il servizio di connessione internet.
L’obbligo di rimozione delle app di messaggistica istantanea sarebbe stato imposto dalle autorità cinesi per garantire il controllo delle attività degli smartphone di alcuni cittadini. Stando a quanto riferito dalla Electronic Frontier Foundation (Eff), alcuni utenti dello Xinjiang avrebbero subito un’interruzione improvvisa del servizio telefonico: i fornitori interpellati per il disguido li avrebbero indirizzati alle forze dell’ordine per eventuali spiegazioni.
A quanto si apprende, l’interruzione sarebbe il risultato di un ordine di blocco impartito dalle autorità in seguito alla verifica d’uso di reti private virtuali (Vpn) e del download di app di messaggistica istantanea da parte alcuni utenti. Per riottenere la connessione, i cittadini coinvolti dovranno provvedere alla rimozione dei software incriminati.
La gestione della censura da parte del governo Cinese ha più volte destato l’attenzione degli osservatori internazionali. Lo Xinjiang è già stato al centro dell’attenzione per la repressione che negli anni recenti ha portato all’incarcerazione di blogger e giornalisti accusati di terrorismo, separatismo ed estremismo; mentre nel 2009 una vasta porzione del territorio era stata isolata con un “provvedimento di interruzione delle reti”.
Con la diffusione degli smartphone, l’argine della censura ha dovuto fare i conti con software versatili e di ampia diffusione, come Telegram e WhatsApp. Le forze dell’ordine hanno perciò deciso di ricorrere alle ispezioni più accurate degli strumenti tecnologici anche ai posti di blocco autostradali, con il conseguente provvedimento di sequestro nel caso ad esempio di rilevazione di software di cifratura, e adesso anche per alcuni software di uso generico.
Attualmente, il governo Cinese blocca l’accesso ad alcuni dei più importanti siti mondiali, come Google, Facebook, Youtube e Twitter, a scapito dei servizi omologhi offerti all’interno dei confini del paese, come Weibo, Youku e Baidu. A questo si aggiunge il blocco permanente di siti ritenuti ostili al governo, come nel caso di Amnesty International, o sospesi per via di pubblicazioni sgradite, come per il sito del New York Times, bloccato nel 2012 per la pubblicazione di un dettagliato articolo incentrato sul patrimonio del primo ministro Cinese Wen Jiabao.
Dati i limiti imposti per l’accesso alla rete, accade che alcuni utenti cinesi decidano di eludere la censura scaricando software VPN che consentono di sfruttare il collegamento alla rete privata di un altro paese per navigare eludendo i blocchi di stato. Il software provvede a mascherare l’indirizzo IP offrendo un ampio numero di protocolli di connessione e rendendo possibile l’accesso a qualsiasi sito internet.
Tuttavia, la larga parte dei 650 milioni di Cinesi che naviga quotidianamente su internet si limita a utilizzare siti nazionali in lingua cinese, sconosciuti al pubblico occidentale e agevolmente monitorati dalle autorità. Il motore di ricerca cinese Baidu, è stato più volte accusato di censurare contenuti e siti non graditi al governo: alla richiesta di notizie riguardanti fatti storici controversi, una eloquente frase del motore di ricerca ricorderà all’utente che, in accordo con le leggi e le politiche in vigore, non è possibile mostrare alcuni dei risultati inerenti alla ricerca intrapresa.
Nel World Press Freedom Index, rapporto annuale sulla libertà di stampa e d’informazione pubblicato da Reporters Sans Frontieres, la Cina si colloca al 176 posto dei 180 paesi esaminati.
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