La conferma del sequestro del famigerato sito di condivisione di file torrent porta nuovamente in primo piano il tema delle responsabilità dei provider. La Suprema Corte infatti ha nuovamente imposto agli ISP l’impiego di filtri che neghino l’accesso da parte degli utenti alla Baia dei Pirati.
La vicenda giudiziaria italiana di The Pirate Bay è iniziata nell’agosto 2008, quando il GIP di Bergamo ha stabilito la responsabilità del sito svedese nel favoreggiamento della violazione del diritto d’autore e ha disposto l’esclusione dell’accesso al sito da parte dei fornitori di connettività alla rete. Un provvedimento sospeso poi dal Tribunale del Riesame che, pur riconoscendo l’illiceità dell’attività della Baia dei Pirati, ha decretato l’illegittimità del sequestro: la mancata fisicità propria di un sito internet fa ricadere la responsabilità del collegamento su terze parti estranee al reato (gli ISP), risolvendosi in un’inibitoria atipica, non conforme all’art.321 c.p.p.
Ma la Cassazione ha annullato l’ordinanza di dissequestro: l’immaterialità di un sito internet non pregiudica la possibilità di apporvi un vincolo, e per i provider sussiste «un obbligo generale di sorveglianza sui flussi telematici in transito sui propri sistemi». La Suprema Corte ha ordinato quindi che gli ISP escludano l’accesso da parte degli utenti a The Pirate Bay al fine di precludere l’attività illecita di diffusione di opere protette da diritto d’autore.
Tecnicamente, questo blocco di accesso, definito impropriamente “sequestro”, ha in realtà le caratteristiche di un oscuramento: tramite filtri nel Domain Name System, la richiesta dell’apertura di una pagina web mediante l’indirizzo testuale non viene risolta dai server in un indirizzo numerico IP, inibendo di fatto l’accesso al sito. Un sistema facilmente aggirabile da qualsiasi utente, grazie alle numerose guide che spiegano le procedure per cambiare i server DNS forniti dall’ISP.
E proprio sull’inutilità dei filtri di navigazione verte una delle principali critiche che l’Associazione Italiana Internet Provider muove alla sentenza della Cassazione, di cui denuncia gli “effetti devastanti”. «È ampiamente dimostrato», sostiene l’AIIP nel suo comunicato, «che i filtri funzionano solo ed esclusivamente se l’utente “filtrato” è disponibile a collaborare o se il provider è l’ultimo anello della connessione che porta al sito in questione (l’hosting provider). Dunque, se il filtraggio tecnicamente non funziona, è anche inidoneo a costituire modalità di esecuzione dell’inibitoria ed, in generale, ad impedire che il reato venga commesso». Inoltre, secondo l’associazione «se atti illeciti sono stati commessi e se sono stati commessi in Italia, i soli a dover rispondere sono coloro che li hanno commessi. Non è ancora chiaro a tutti che se si deve disporre il sequestro di un sito, questo deve essere eseguito presso il fornitore del servizio di hosting».
La denuncia dell’AIIP è solo l’ultima delle proteste contro l’attribuzione di responsabilità ai provider, non solo agli ISP , sui contenuti veicolati. La recente sentenza del Tribunale di Roma sul caso del Grande Fratello su YouTube ha sollevato un’analoga reazione da parte dell’hosting provider, che in questo caso declinava ogni responsabilità sul contenuto generato dagli utenti. Il Tribunale di Roma aveva decretato che le responsabilità di YouTube non erano riconducibili a un generale obbligo di sorveglianza dei fornitori di servizi rispetto ai contenuti «che si risolverebbe in una inaccettabile responsabilità oggettiva», ma sussistevano sulla base dell’organizzazione e della gestione dei contenuti operata da YouTube. Ora la Cassazione però ha profilato anche un “obbligo generale di sorveglianza” dell’ISP sui contenuti della rete: proprio ciò che il Tribunale di Roma considerava una’inaccettabile responsabilità oggettiva.
È ormai evidente come sul tema delle responsabilità dei provider la giurisprudenza abbia adottato una valutazione caso per caso.
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