Editoriale di Giusella Finocchiaro pubblicato su Giustizia Civile il 29 luglio 2019.
Il diritto all’oblio, oggi di rinnovato interesse, è stato oggetto di un’attesa decisione delle Sezioni Unite, recentemente depositata (decisione 19681 depositata il 22 luglio 2019). In questa Rivista avevo commentato l’ordinanza di rimessione n. 28084/2018 e al mio precedente scritto rinvio per ulteriori considerazioni.
La sentenza effettua un’estesa ricognizione del diritto all’oblio, per poi confermare, ulteriormente precisandolo, un orientamento in parte già adottato dalla Corte. È una decisione, dunque, che conferma e affina i caratteri costitutivi di un diritto che oggi vive una nuova vita e riveste molteplici significati. Questa pronuncia assume un ruolo importante nel necessario percorso di ricostruzione sistematica che giurisprudenza e dottrina hanno intrapreso allo scopo di ridefinire e rimodulare il quadro dei diritti della personalità, e in particolare nella riconsiderazione del diritto alla riservatezza, del diritto all’identità personale e del diritto alla protezione dei dati personali.
Il diritto all’oblio, come è noto, è un diritto che può definirsi ormai antico, di creazione giurisprudenziale, la cui genesi, come ricorda la stessa decisione in commento, può ricondursi alla sentenza 13 maggio 1958, n. 1563 della Corte di Cassazione, relativa al caso del questore di Roma coinvolto nella strage delle fosse Ardeatine. Si parlò, all’epoca, di “diritto al segreto del disonore”. La Suprema Corte si riferì espressamente al “diritto all’oblio” nella decisione 9 aprile 1998, n. 3679, inquadrandolo come “nuovo profilo del diritto alla riservatezza”.
Oggi il diritto all’oblio assume molteplici significati. Il primo, quello originario, consiste nel diritto a non vedere ripubblicate notizie già legittimamente pubblicate, quando sia trascorso un notevole lasso di tempo e non ci sia un interesse attuale alla ripubblicazione della notizia. Il secondo, quello oggetto della decisione n. 5525 del 2012 della Corte di Cassazione, è il diritto alla contestualizzazione delle informazioni. Il terzo, quello affermato dal Regolamento europeo 679/2019 e anticipato nel caso Google Spain, è il diritto alla cancellazione dei dati personali qualora ricorrano determinate circostanze.
Le tre accezioni del diritto all’oblio affondano le loro radici in diritti della personalità distinti. Sotto il primo profilo, il diritto all’oblio appartiene, come magistralmente è stato scritto da Ferri, “alle ragioni e ‘alle regioni’ del diritto alla riservatezza”. Se si considera il secondo profilo, il diritto all’oblio appartiene alla sfera del diritto all’identità personale. Se, infine, si prende in esame il terzo profilo, il diritto all’oblio va iscritto nel diritto alla protezione dei dati personali.
Anche per questa sua natura multiforme e per la sua dipendenza concettuale da altri consolidati diritti della personalità, il diritto all’oblio non si configura come un diritto in sé, ma piuttosto come un diritto strumentale all’esercizio di altri diritti.
In questa decisione le Sezioni Unite della Corte di cassazione individuano e precisano i limiti del diritto all’oblio considerato nella prima accezione, quella originaria. Si tratta, come afferma la Corte, di un caso “classico” (NdA: in corsivo nel testo). Si è, dunque, nell’ambito del più tradizionale diritto alla riservatezza. Non rilevano né Internet, né i social network, né il mondo digitale.
Il caso ha ad oggetto la rievocazione nell’articolo di un quotidiano di un omicidio avvenuto ventisette anni prima, all’interno di una rubrica intitolata “la storia della domenica”, dedicata ad alcuni fatti di cronaca nera. Rievocazione dei fatti e ripubblicazione dell’articolo originario identificano l’interessato e lo rendono pienamente riconoscibile.
L’ordinanza di rimessione richiede un pronunciamento sul bilanciamento fra il diritto di cronaca, posto al servizio dell’interesse pubblico all’informazione, e il diritto all’oblio, finalizzato alla tutela della riservatezza della persona.
La decisione, dopo avere effettuato una ampia ed estesa ricostruzione della genesi e dell’evoluzione del diritto all’oblio nel quadro giurisprudenziale non solo italiano e nel “reticolo di norme nazionali ed europee” (Ord. Cass. 6919 del 20 marzo 2018), effettua due importanti precisazioni.
La prima è che nel caso di specie non di cronaca propriamente si tratta, bensì di rievocazione storiografica. “Quando un giornalista pubblica di nuovo, a distanza di un lungo periodo di tempo, una notizia già pubblicata –la quale, all’epoca, rivestiva un interesse pubblico- egli non sta esercitando il diritto di cronaca, quanto il diritto alla rievocazione storica (storiografica) di quei fatti”. Si tratta, precisa la Corte, di un’attività preziosa per la vita della collettività, ma che non necessariamente richiede l’identificazione dei protagonisti, a meno che non riguardi personaggi che hanno rivestito o rivestono tuttora un ruolo pubblico. Conseguentemente “il diritto dell’interessato al mantenimento dell’anonimato sulla sua identità personale è prevalente, a meno che non sussista un rinnovato interesse pubblico ai fatti ovvero il protagonista abbia ricoperto o ricopra una funzione che lo renda pubblicamente noto” e “il diritto ad informare, che sussiste rispetto a fatti molto lontani, non equivale in automatico al diritto alla nuova e ripetuta diffusione dei dati personali” (NdA: in corsivo nel testo).
La seconda importante precisazione è l’affermazione che la scelta editoriale di una testata giornalistica non può essere messa in discussione: essa costituisce una delle modalità di espressione della libertà di stampa.
La sentenza di merito dunque è cassata in primo luogo perché ha richiamato il diritto di cronaca, ponendolo a confronto con il diritto all’oblio, mentre non di cronaca ma invece di rievocazione storiografica si tratta. In secondo luogo, perché non ha ponderato le ragioni per le quali la rievocazione sia stata effettuata, riportando il nome e cognome dei protagonisti, né ha considerato nel bilanciamento il percorso di riabilitazione effettuato nei ventisette anni trascorsi fra la prima e la seconda pubblicazione, e il reinserimento nel tessuto sociale.
Un altro importante passo in una materia che, come scrive la Corte, “di per sé sfugge ad una precisa catalogazione e richiede di volta in volta, invece, la paziente e sofferta valutazione del giudice di merito”. E che richiede il costante impegno e dialogo di giurisprudenza e dottrina per individuare quel bilanciamento fra diritti contrapposti che costituisce il cuore anche del Regolamento europeo 679/2019 il quale, già dal titolo, enuncia di volere proteggere le persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali e di volere tutelare anche la libera circolazione di tali dati.