Il 27 febbraio sono state rese pubbliche le motivazioni della sentenza di assoluzione degli amministratori di Google pronunciata dalla Corte d’appello di Milano il 21 dicembre nell’ormai famoso caso Google vs. Vividown.
Non è configurabile, secondo la Corte, il reato di trattamento illecito di dati personali, previsto dall’art. 167 del Codice per la protezione dei dati personali perché:
1) l’obbligo dell’informativa non è neppure richiamato fra le fattispecie la cui violazione comporta il configurarsi di detto illecito
2) Google non è titolare del trattamento ed è invece il titolare a dover fornire l’informativa all’interessato
3) non è configurabile il dolo specifico.
Per comprendere appieno la decisione occorre muovere dal disposto dell’art. 167 del Codice privacy, intitolato “Trattamento illecito di dati”:
“1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell’articolo 129, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi.
2. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 17, 20, 21, 22, commi 8 e 11, 25, 26, 27 e 45, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da uno a tre anni”.
Dunque, secondo il testo della norma sopra riportato, il reato di trattamento illecito dei dati personali si configura se si realizzano contestualmente i seguenti presupposti:
1) sussiste il dolo specifico, cioè il fine di trarre profitto o di recare ad altri un danno
2) si procede al trattamento in violazione di uno degli articoli menzionati
3) dal fatto deriva nocumento.
Sulla configurabilità del nocumento non sussistono dubbi. Non ricorrono, invece, gli altri due presupposti.
Nel caso Google vs. Vividown il dolo specifico non sussiste, non potendo, secondo la Corte d’appello, ritenersi che questo coincida “con il fine di profitto costituito dalla palese vocazione economica dell’azienda Google” “mancando qualsiasi riscontro di un vantaggio direttamente conseguito dagli imputati” e la struttura della norma “postula la necessaria partecipazione psichica intenzionale e diretta del soggetto al raggiungimento di un profitto”.
Il trattamento è avvenuto senza che all’interessato fosse fornita l’informativa, ma questo non è un comportamento previsto dall’art. 167. Infatti, l’art. 13, che dispone l’obbligo di fornire l’informativa non è menzionato dall’art. 167. Oltre a ciò, l’obbligo di fornire l’informativa all’interessato grava sul titolare del trattamento e non su terzi soggetti, dunque sull’uploader del video e non su Google.
Non si può che condividere questi argomenti e concordare con la decisione che porta chiarezza in una materia quanto mai complessa.
[…] un’analisi dettagliata delle motivazioni della sentenza si rimanda al post della Prof. Giusella Finocchiaro. Le motivazioni della sentenza sono disponibili […]
[…] Nel dicembre 2012 la Corte d’Appello del Tribunale di Milano, ribaltando la decisione del giudice Magi, ha assolto con formula piena i tre manager perché “il fatto non sussiste”. La Corte ha individuato la responsabilità del trattamento dei dati nell’uploader del video e non nel provider di contenuti. Pertanto la violazione non sarebbe in capo a Google, ma ai responsabili della pubblicazione online del video (nello specifico, della studentessa). Per un’analisi delle motivazioni della Corte si rimanda all’approfondimento della Prof. Giusella Finocchiaro. […]